Mantra.

Quella dei mantra è una scienza molto complessa. Esistono persino mantra con scopi estremamente specifici, come curare i morsi di serpente e simili. Iniziando con l’OM e dissolvendosi nell’OM, il mantra compie il suo intero ciclo.

OM non può essere tradotto. Esso è formato da tre lettere: A, U e M, e indica i tre periodi del tempo, i tre stati di coscienza e di tutta l’esistenza. A è lo stato di veglia, U quello di sogno e M è lo stato di sonno profondo. OM contiene nada e bindu. Nada è il suono prolungato e bindu il suono simile ad un ronzio, fatto a labbra chiuse, con cui si conclude il mantra.

Un mantra è detto così perché viene conseguito attraverso il processo mentale. La radice man, nella parola mantra, viene dalla prima sillaba della parola che significa “pensare”, e tra da trai che vuol dire “proteggere o liberare” dai legami del mondo fenomenico. Il Mantra rimuove la sporcizia della mente, la libera, genera forza creativa e, quando viene ripetuto costantemente, risveglia la coscienza.

Qui però è d’obbligo una precisazione: in occidente, e specialmente nella tradizione cattolica (anche se in quella cristiana delle origini non è così), siamo abituati al concetto di preghiera, nel senso che ci si mette in ginocchio a chiedere perdono e a chiedere qualcos’altro. I mantra non sono preghiere in questo senso.

I mantra indiani sono formule che permettono di collegarci alla nostra vera essenza interiore, alla vera natura che è parte di noi: che poi lo chiamiamo Dio, divinità, Universo, deva, energia cosmica o qualsiasi altra cosa non importa. Il concetto è chiaro, i mantra ci connettono con la nostra natura più profonda agendo direttamente sull’inconscio.

Japa o Mantra Yoga è la pratica attraverso la quale il potere contenuto all’interno del mantra viene usato per fini specifici e per renderci capaci di connetterci, appunto, con la nostra parte più Alta.
Ogni mantra è costituito da una combinazione di suoni derivati dalle cinquanta lettere dell’alfabeto sanscrito (il ruolo di questa lingua nella cultura indiana è simile a quello del latino e del greco antico in Europa. Il sanscrito è conosciuto anche come devanagari o lingua degli déi). Gli antichi saggi hanno sperimentato innumerevoli combinazioni di suono per creare vibrazioni specifiche che hanno effetti chiari e prevedibili sulla psiche e sul corpo umano. Basti pensare alla differenza di percezione che intercorre tra l’ascoltare la musica classica e quella rock.

I mantra sono diversi:
bija mantra o mantra del seme che non hanno alcun significato preciso. Essi agiscono direttamente sui condotti delle nadi e vibrano nei chakra lungo la colonna vertebrale – come un massaggio sciolgono i blocchi e permettono all’energia kundalini di scorrere liberamente;
nirguna mantra o mantra astratti che creano potenti vibrazioni nel corpo ma verbalmente affermano l’unione con la coscienza pura non manifesta.

I più comuni sono i mantra delle divinità in cui una specifica forma con attributi viene visualizzata insieme alla ripetizione del suono. Per esempio, un padre di famiglia, il cui ideale è di essere un marito affettuoso e responsabile, potrebbe meditare sul nome di Rama.

Ripeto che i nomi delle divinità sono, però, indicativi di qualcosa che appartiene a ciascuno di noi: una spiritualità alta e altra a cui non può essere dato un nome perché non è assolutamente percepibile con la sola coscienza umana.

E’ stato dimostrato sperimentalmente che le note prodotte da certi strumenti possono tracciare forme geometriche determinate su uno strato di sabbia. Per produrre una data forma si dovrà generare un dato suono, di una particolare altezza. Ripetendo la stessa nota, alla stessa altezza, si otterrà di nuovo la stessa forma.

Il suono, quindi, produce vibrazioni e forme e se lo fa sulla sabbia, figuriamoci con l’acqua in cui il nostro corpo è praticamente immerso. Quello di una persona adulta ha una presenza di acqua che si attesta attorno al 65% e vuol dire dire che ne contiene 40-50 litri. La pecentuale più alta di acqua si ha nella blastocisti presente subito dopo la fecondazione (90% in acqua) poi nell’embrione (85%) e a seguire nel neonato (dal 75 all’85%). In un quarantenne la percentuale d’acqua si attesta tra il 60 e il 70%.

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